L'epidemia di colera del 1837
di Florindo Cirignano
The cholera epidemic of 1837 english version
Un giorno di maggio del 1838...
“L’aia del casale era stata spazzata con
estrema cura e lavata con acqua profumata con rosmarino e fiori di gelsomino.
Su due pali, che ne tagliavano a metà la
circonferenza,
era stata tesa una fune intrecciata di pampini d’edera, alla quale erano
legate una mezza dozzina di lampade a olio. Altre lampade erano posate su
diversi tavoli posti tutt’attorno in cerchio. I sedili ricavati da tavole
fissate su grossi tronchi di quercia erano stati disposti all’esterno. Mazzi
di rose e gelsomini erano disseminati dappertutto. Nonostante la sera fosse
abbastanza calda, tre falò ardevano scoppiettando poco lontano e nelle
ceneri ardenti erano state sotterrate intere ceste di patate. Sulle tavole,
coperte di candido lino, erano in bella mostra grosse pagnotte di pane
giallo impastate con farina di mais e non mancavano neppure quelle più
pregiate di farina di frumento. Ammonticchiati ad arte, si potevano ammirare
montagne di biscotti al miele della grandezza di un pugno, dolci di mandorla
e di nocciole, piccoli rombi di mais innaffiati di mosto cotto, grosse
stecche di fichi secchi infilzati su bastoncini di canna e diverse torte di
ricotta e di riso profumata alla cannella. Cagliate, ricotte fresche in
canestri di vimini e pezzi di formaggio erano contornati da salumi di
differenti varietà e da cumuli di caldarroste. Grandi recipienti di vino,
sia bianco sia rosso, facevano bella mostra qua e là tra innumerevoli
bicchieri di vetro e “ammole” di terracotta. Quatto cani bastardi
scodinzolavano irrequieti e felici un po’ discosti dalla confusione. I
musicisti erano tre, vestivano di verde e portavano un fazzoletto rosso
annodato al collo; suonavano chitarra, violino e tamburo. I genitori dei
promessi sposi ricevevano gli invitati sull’aia, porgendo loro grandi
bicchieri augurali di vino spumoso. Non si vedeva nessuna ragazza, almeno
fino a quando i musicisti iniziarono il loro primo brano. Solo allora
uscirono tutte dalla medesima casa, la sposa promessa per prima e poi le
altre… e di colpo si sentì soffiare un vento di primavera che portò una
nuvola di petali di fiori di ciliegio. Si fece più chiaro sull’aia, mentre
il meglio della gioventù torrese si avvicinava come in processione. Tutte le
ragazze avevano i capelli intrecciati con coroncine di margherite bianche e
calendule arancioni e portavano tra le mani mazzi di garofani. Un brivido
passò lungo le schiene dei ragazzi mentre le giovani, agghindate come ninfe
campestri, passavano davanti a loro profumate di violetta selvatica.
Transitarono capelli ricci, lisci, con boccoli e tirabaci sulle tempie,
acconciati in una treccia unica o con due parallele (per le più giovani),
riportati a crocchia, a cipolla, oppure in complesse impalcature, alla
spagnola o alla francese, con frangetta, fermati dietro la nuca con pettini
di osso sfavillati di pietre luccicanti. Transitarono facce sorridenti,
curiose, speranzose, insolenti, maliziose, rosse di malcelato pudore,
davanti ai giovani imbambolati e imbarazzati, i quali tuttavia, virilmente,
cercavano di assumere un atteggiamento falsamente spavaldo. Davanti a loro
sfilarono Maria dai capelli di corvo, Giulia dallo sguardo sfuggente,
Antonietta dal corpo slanciato di cerbiatta, Luisa dalle labbra di ciliegia,
Domenica dal volto lentigginoso di bambina, Alfonsina dalle natiche possenti,
Giuliana dalla pelle più bianca del latte, Linda dal petto duro come ferro,
Giovanna dalle mani d’oro, che con un ago e filo poteva ricamare il cielo,
le stelle e gli abitanti che dimoravano in esse. Sedute in disparte persone
di una certa età - parenti, vicini e compari – vestivano i loro migliori
panni, quelli che indossavano solo nelle grandi occasioni. Tuttavia le
scarpe, per lo più sformate e consunte dal lungo uso, tradivano la loro
dignitosa e malcelata povertà.
Io c’ero alla festa di fidanzamento di Maria Gaetana e Giosuele Bevilacqua, in quella splendida serata di maggio del 1838 e con me c’erano tutti i giovani di Torre: I Mogavero, i Lombardi, i Todesca, gli Ardolino, i Tecce, i De Carro, i Russo, gli Iarrobino, i Vozzella, i Colucciello, i Capone, i Cefalo, i Bianchino, i Carideo, i Rotondi. La festa doveva tenersi nel mese di agosto dell’anno precedente, ma c’era stata l’epidemia di colera ed era stata rinviata.
Maria Gaetana era bellissima. Indossava il suo abito nuovo di seta color ocra con un grembiulino azzurro. Un corpetto severo, come quello dei dragoni del reggimento reale, le serrava i seni e le spalle al si sopra della bella vita snella.
Maria Gaetana era bellissima ma ancora più bella era la mia Stella.
Stella, mia Stella! Dilania pure le mie carni con le tue mani, straziami il cuore, il fegato e le reni, ma lasciami gli occhi per vederti, fai lacerti della mia anima, affogami in acque morte, ma fa che io possa carezzare almeno la tua ombra.
Io me ne stavo in disparte con i pugni serrati in tasca, maledicendo il dio della mia timidezza, disperando della mia sorte quando la vidi venire lentamente verso di me.
Mi fissò per un istante con i suoi bellissimi occhi severi e mi tese la mano. Si mi tese la mano per invitarmi a ballare! Proprio a me! E fu solo in quell’istante che mi resi conto che, con la stessa facilità, potevo sia morire, sia arare il cielo e seminare le nubi e che la vita non mi aveva riservato solo fatica e dolori, ma anche la cosa più bella mai nata sotto il sole di Torre.”
“L’amore a Torre ai tempi del colera” di anonimo del XX sec.
( Il vestito è conservato dalla signora Antonella Bevilacqua)
L'epidemia
Il
morbo partì dalle paludi malsane del Gange, dove serpenti velenosi si
attorcigliano lungo tronchi putridi e tigri feroci lanciano nelle foreste il
loro richiamo di morte. Passò per le steppe dell’Afganistan e raggiunse il
Corno d’Oro. Per quasi 20 anni disseminò di morti l’intera Asia Minore prima
di passare in Europa, poi, portato da contrabbandieri, arrivò in Liguria nel
1835.
Nel 1836 fece la sua comparsa nel Regno delle Due Sicilie, lasciando un
lungo codazzo di morte. A Napoli ci furono 100 nuovi contaminati al giorno.
A Torre si presentò nel mese di marzo in forma alquanto benigna. Ci furono
pochi contagiati, ma tutti ebbero un’evoluzione positiva. Ritornò più forte,
però, a fine luglio e questa volta pretese il suo tributo di morte. Il
Cholera, o morbo asiatico, agli inizi di agosto aveva già colpito diverse
famiglie e si ritenne opportuno non fare la festa di San Ciriaco ma, anzi,
di creare un lazzaretto in una” massaria di campagna” dove ricoverare gli
infermi.
Il
giorno di San Lorenzo “alle ore venti moriva nella massaria di campagna
Carmina Di Iorio, di anni 60, contadina, attaccata dal morto asiatico
(cholera)”. Immediatamente si diffuse il panico tra i torresi. Da fuori
arrivavano strane voci su avvelenatori prezzolati da nobili o da stranieri
che contaminavano l’acqua
per
distruggere le classi popolari. Si raccontava di paesi decimati dal morbo,
tanto che i cadaveri dovevano essere abbandonati lungo le strade. Si
guardavano con diffidenza e odio i pochi forestieri, ambulanti per lo più,
che si azzardavano a mettersi in viaggio. Il 19 morì Giuseppa Addonizio di
70 anni che abitava in via Trinità, ma che era stata trasferita nella
“massaria di campagna” che serviva da lazzaretto. Anche gli animali si
ammalavano e morivano contribuendo ad appestare l’aria con miasmi mefitici.
La malattia si presentava con un’iniziale scarica diarroica, la quale si ripeteva incessantemente lungo la giornata. Venivano, poi, crampi muscolari, debilitazione, sonnolenza e vomito. Nell’arco di pochi tempo si poteva morire di disidratazione. A quel tempo non era stata compresa la meccanica della malattia e che il contagio si trasmetteva per via fecale, tramite la contaminazione delle acque e del cibo, frutta e verdura in primis. I medici, completamenti impotenti innanzi alla portata dell’epidemia, erano in disaccordo sulla terapia e sulle modalità di prevenzione. Questa incertezza fece in modo che ogni torrese credesse di avere un personale efficace rimedio. C’era chi teneva costantemente un sorso di vino in bocca, sforzandosi di respirare solo col naso, chi masticava incessantemente aglio e cipolla, ritenuti rimedi efficacissimi contro ogni infezione. Si credeva che la malattia si diffondesse per via aerea tramite i miasmi, perciò si accendevano davanti alle case dei falò con legna e paglia bagnata, in modo che facesse molto fumo, necessario a debellare il contagio. Maghi e fattucchiere preparavano intrugli miracolosi a base malva, peperoncino, fichi secchi e ingredienti innominabili. I più agiati pensavano che il rum e il limone fossero gli unici rimedi validi e ne facevano grande uso. I contadini adoperavano l’aglio, il vino, la menta, l’ortica e l’erba di San Giovanni.
Il 21
agosto morì un bambino di 12 anni: Carmine Scala che abitava sulle
Costarelle. Anch’egli era stato trasportato nel lazzaretto ( non si capisce
bene
se ci fosse una di queste strutture in ogni paese, oppure ce ne fossero solo
alcuni territoriali che servivano più comuni. Uno ad esempio, per
tradizione popolare, si trovava tra Serra e Montefusco.)
L’ultimo a morire, il 17 ottobre, fu Ciriaco Bianchino, 56, bracciale, abitante in via Trambato ( Casaline) e deceduto nella solita “massaria di campagna”.
Solo a fine autunno il morbo fu debellato.